STIPENDI ECCO PERCHÈ IN ITALIA SONO COSÍ BASSI

Mentre i prezzi sono in continuo aumento, gli stipendi dei lavoratori calano. In Italia, insomma, si guadagna sempre meno. Il nostro paese è la “maglia nera” per i salari tra le grandi economie avanzate del pianeta. È la fotografia scattata dall’Ocse, l’organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico con sede a Parigi, nel suo ultimo rapporto sulle “prospettive sull’occupazione” per l’anno in corso, come abbiamo spiegato qui. Tra i big del mondo, nel 2023 l’Italia ha registrato il calo dei salari reali (cioè rapportati all’inflazione) più importante rispetto al periodo che ha preceduto la pandemia di covid. La perdita di potere d’acquisto, fa notare l’Ocse, ha un impatto più forte sulle famiglie a basso reddito, che hanno una minore capacità di far fronte all’aumento dei prezzi attraverso il risparmio o l’indebitamento.

Alla fine del 2022, i salari reali in Italia erano calati del 7,3% rispetto al periodo precedente la pandemia. La discesa è continuata nel primo trimestre del 2023, con una diminuzione su base annua del 7,5%, avverte l’organismo internazionale. Secondo le proiezioni Ocse, in Italia i salari nominali, calcolati senza tenere conto dell’aumento dei prezzi, aumenteranno del 3,7% nel 2023 e del 3,5% nel 2024, mentre l’inflazione dovrebbe attestarsi al 6,4% nel 2023 e al 3% nel 2024. Il problema è proprio l’aumento dei prezzi: l’invasione russa dell’Ucraina ha contribuito a un’impennata dell’inflazione, che non è stata accompagnata da una crescita corrispondente dei salari nominali. Di conseguenza, i salari reali sono diminuiti praticamente in tutti i paesi Ocse, ma in Italia più della media. Le più colpite sono le famiglie a basso reddito, che hanno una minore capacità di far fronte all’aumento dei prezzi degli ultimi mesi.

I dati sono chiari, dunque. Ma perché in Italia si guadagna sempre meno? Perché gli stipendi sono così bassi? Ci sono due motivi principali, tralasciando il “fattore Ucraina” che sta contribuendo all’aumento generalizzato dei prezzi. Un particolare avvertimento viene lanciato all’Italia rispetto ai “significativi ritardi nel rinnovo dei contratti collettivi (oltre il 50% dei lavoratori italiani è coperto da un contratto scaduto da oltre due anni)”, che – sottolinea l’Ocse – rischiano di “prolungare la perdita di potere d’acquisto per molti lavoratori”. In Italia, i salari fissati dai contratti collettivi sono diminuiti in termini reali di oltre il 6% nel 2022. Si tratta di un calo particolarmente significativo se si considera che, a differenza di altri paesi, la contrattazione collettiva copre, in teoria, tutti i lavoratori dipendenti.

L’indicizzazione dei contratti collettivi alle previsioni Istat dell’inflazione – al netto dei beni energetici importati (Ipca-Nei) -, recentemente riviste significativamente al rialzo, sottolinea l’organizzazione internazionale, “fa pensare che i minimi tabellari potranno recuperare parte del terreno perduto nei prossimi trimestri”. Il punto è che ora i ritardi nel rinnovo dei contratti collettivi prolungano la perdita del potere d’acquisto per chi lavora. La contrattazione collettiva, sottolinea l’Ocse, può contribuire a mitigare la perdita di potere d’acquisto dei lavoratori e a garantire una più equa distribuzione dei costi dell’inflazione tra imprese e lavoratori, evitando una spirale prezzi-salari. I dati suggeriscono che nei paesi Ocse “c’è spazio per i profitti per assorbire aumenti salariali, almeno per i lavoratori a bassa retribuzione. I governi dovrebbero, inoltre, riorientare i sostegni messi in piedi nell’ultimo anno in maniera più mirata sulle famiglie a basso reddito”.
La questione del salario minimo

Non è solo questione di contrattazione collettiva, però. Il direttore per l’impiego, il lavoro e gli affari sociali dell’Ocse, Stefano Scarpetta, ritiene che nel nostro paese pesi anche “l’assenza di un salario minimo”, già introdotto in trenta paesi Ocse su 38. Evocando, tra l’altro, gli effetti della guerra in Ucraina, l’economista sottolinea “l’importanza di avere in momenti come questo un salario minimo, accompagnato da una commissione per valutarne il livello”. Viene citato l’esempio della Germania, che come l’Italia ha una “forte” contrattazione collettiva, il che non ha impedito all’ex cancelliera Angela Merkel di introdurre una forma di salario minimo (partito nel 2015 da 8,50 euro l’ora) anche in risposta alla diffusione dei cosiddetti “mini job”.

Diverse leve possono essere attivate per limitare l’impatto dell’inflazione sui lavoratori e garantire un’equa ripartizione dei costi tra poteri pubblici, imprese e lavoratori. “Il mezzo più diretto per aiutare questi ultimi è quello di aumentare i loro salari, compreso il salario minimo legale, che è fissato dallo Stato”, sottolinea l’Ocse nel suo report. Nei paesi Ocse, in media, i salari minimi nominali “hanno tenuto il passo dell’inflazione grazie a degli aumenti discrezionali o grazie a dei meccanismi di indicizzazione. Al contrario, le retribuzioni negoziate nell’ambito dei contratti collettivi sono diminuite in termini reali, a causa del ritardo legato alla natura scaglionata e relativamente poco frequente delle trattative salariali”, osserva l’organizzazione internazionale.