E se la corrispondenza d’amorosi sensi fra Giorgia Meloni e l’elettorato stesse per entrare in una nuova fase, più complicata, a quasi un anno dal voto delle elezioni politiche del settembre 2022? La cifra del governo è sempre stato il ruolo di garanzia – per non dire di parafulmine – della presidente del Consiglio. In certi frangenti Meloni sembra il Mourinho della stagione interista: quando la squadra non gira, l’allenatore si inventa qualcosa per distogliere l’attenzione dal gruppo dei giocatori (che in questo caso sarebbero i ministri dell’esecutivo). La tassa sugli extraprofitti alle banche è stata prontamente rivendicata da Meloni in una conferenza stampa, quasi a cercare di nascondere le altre difficoltà che il destra-centro ha affrontato fin qui. Si veda il caso degli sbarchi, di cui a parlare sono soprattutto i sindaci (a partire da quelli del Pd). Oppure si prendano le preoccupazioni del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sulla redazione della legge di bilancio. Il ministro ha invitato a selezionare gli interventi di cui ci sarà più bisogno. Un basilare concetto economico, visto che i bisogni sono infiniti ma le risorse sono limitate, ma in questa fase è apparso soprattutto come un segnale di stop ai partiti della maggioranza di governo, dove non mancano i teorici dei “pasti gratis”. Ma chi potrà beneficiare delle difficoltà della coalizione di Palazzo Chigi? L’opposizione non è esente da discussioni. L’ex Terzo Polo è (poco cordialmente) spaccato, mentre il Pd è alle prese con l’estate militante di Elly Schlein. La segretaria dei Democratici sta girando le feste del suo partito – da quelle territoriali a quella nazionale – alla ricerca di un collante che tenga insieme il Pd e gli alleati. La minoranza bonacciniana appare sufficientemente tranquilla; d’altronde l’anno prossimo ci sono le elezioni europee e nessuno sembra voler disturbare la manovratrice (ah, le liste elettorali). È possibile che alle Europee Schlein decida di ripetere lo schema, già attuato in questi mesi, in occasione della composizione della segreteria nazionale, quando ha coinvolto chi non era neanche iscritto al Pd fino a pochi giorni prima . Dunque sarà possibile vedere candidati nelle liste del Pd alle Europee esponenti della cosiddetta società civile. Persone fuori dal Pd che magari in questi anni non hanno risparmiato critiche al Pd (come d’altronde la stessa segretaria Schlein, che nel 2015 lasciò il Pd contro il Jobs act). La questione dei rapporti con gli alleati è invece più complessa; l’intesa trovata sul salario minimo, che riscontra il consenso dell’elettorato progressista, andrebbe estesa ad altri temi. Già, ma quali? Sulla guerra, forse il fronte più importante, non c’è alcuna possibilità di incontro. A meno che, beninteso, il Pd non cambi linea (come chiedono gli elettori che alle primarie hanno scelto Schlein proprio per questo).